Incontro del 30 marzo
Un commento di suor Emmanuelle-Marie*
Gv 11,1-45
Tutto quello che succede, anche l’irreparabile come la morte, nasconde un bene più grande di quello perso. Come per le sorelle di Lazzaro, è più comodo fermarsi alla situazione immediata: “se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto“. Si trovano sempre dei “se …, non sarebbe capitato“, come se si potesse tornare indietro e ridistribuire le carte. La vita invece è sempre davanti, ricca d’inedito per chi, nel presente, non si ferma a rimpiangere il passato.
“Lazzaro, vieni fuori … Scioglietelo e lasciatelo andare!“. In questa presentazione della morte di Lazzaro, sono raccontate, a livello simbolico, tutte le malattie dell’uomo, nonché il percorso che deve fare per arrivare alla guarigione. E non solo lui, l’infermo, ma anche tutti coloro che “custodiscono” la sua malattia, che a loro insaputa coltivano un senso di onnipotenza, o almeno di potere, su di lui che ha bisogno di cure, di consolazioni. Quanti bambini prendono tutte le malattie solo perché la madre ha bisogno di sentirsi buona e riesce ad esserlo quando i figli sono bisognosi delle sue cure. In questo testo, vengono descritti tutti i comportamenti possibili di fronte alla sciagura: c’è chi piange, non esce di casa, fa il lamento, chi invece esce fuori di corsa, si agita, chi infine rimprovera Dio. C’è anche forse il turbamento di chi attribuisce la sciagura al proprio peccato: se Dio non interviene è perché non me lo merito.
Come se le umane resistenze al bene potessero porre un limite alla tenerezza dell’amore. Tutti questi atteggiamenti sono distrazioni per non incontrarsi con il proprio essere vero affrontato all’imprevisto, alla contrarietà, all’insicurezza, alla radicale solitudine ontologica.
Per essere vita, l’esistenza deve poter essere una successione di morti. Gli antichi si raffiguravano la morte come un fiume da passare. Talvolta però il ponte sembra non esserci. Bisogna avventurarsi, ma il passaggio fa paura. Si rimane fermi sulla riva.
Disperarsi, agitarsi, lamentarsi sono tutti modi per evitare di mettere i piedi nell’acqua, che significherebbe perdere le sicurezze.
È più facile accusare Dio. La sua apparente assenza dalla storia, da qualsiasi storia, diventa pretesto per un ateismo pratico anche da parte di chi si ritiene credente. Di fronte al male, alla morte sentita come l’irrimediabile sconfitta della vita, c’è la risposta del buon cristiano che conosce il catechismo: “so che risusciterà nell’ultimo giorno” e intanto piange.
Gesù cerca di far passare Marta da una fede di testa ad una fiducia viscerale nella vita: “Io sono la risurrezione e la vita“, ma senza ottenere da lei che percepisca il senso profondo di quello che sta avvenendo.
Prima che Lazzaro morisse, né lui né le sue sorelle erano viventi.
Ora la gloria di Dio è l’uomo vivente, non solo perché è il Dio della vita – che è ancora un modo di dire per estrometterlo dal nostro mondo, dalla nostra esistenza – ma perché è la vita che si manifesta come tale in ogni vivente. Crederci è accertare di non fuggire per cogliere il più che viene offerto. È capire che tutta la realtà tangibile, qualsiasi avvenimento e persino qualsiasi sofferenza, sono metafore della vera vita nascosta alla radice di ogni esistenza.
“Lazzaro è morto e io sono contento per voi di non essere stato là, perché voi crediate“ che la vita è, che la morte è solo un’altra forma dell’essere.
Se il sole è offuscato dallo smog, perde per questo il suo fulgore?
“Lazzaro, vieni fuori (…) Scioglietelo e lasciatelo andare!“. L’uomo è chiamato a venir fuori da tutte le morti, il Signore della vita chiama tutti a libertà.
*al secolo Odile Van Deth, suora di clausura per 37 anni, poi ritornata allo stato laicale
Il foglietto: Parte A Parte B
«Questa malattia non è per la morte ma per la gloria di Dio»
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in Incontri
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