Incontro dell’ 11 settembre
Dalla lettera pastorale per l’anno 1998-99
di Carlo Maria Martini: leggi il testo completo
… Il processo di emancipazione dei singoli dalla figura del padre, a cui abbiamo finora soltanto accennato, si è realizzato anche a livello collettivo, di mentalità corrente, negli ultimi secoli della nostra storia, e ha dato origine all’attuale secolarismo. La vicenda è nota: l’Illuminismo del secolo decimottavo ha voluto introdurre un’età della ragione adulta, padrona di sé e del destino del mondo, dove ognuno potesse gestirsi da se stesso e ordinare la vita secondo il proprio calcolo e progetto.
Quest’ambizione dell’epoca moderna – che ha ispirato le grandi rivoluzioni – ha mostrato sempre più la sua profonda ambiguità. Da una parte la pretesa della ragione adulta di spiegare tutto ha prodotto le grandi ideologie massificatrici; con la conseguenza di eliminare con la forza tutto ciò che apparisse diverso (nel credo, nella condizione sociale, nella razza, nella nazione: di qui i regimi polizieschi, i campi di sterminio, le pulizie etniche ecc.). Dall’altra, quasi per rivalsa, dalla negazione programmatica della dipendenza da Qualcuno più alto si è passati alla ricerca di idoli, cioè di meschini “sostituti del padre”, che hanno assunto il volto del capo carismatico, del partito-guida, dell’idea di progresso ecc.
E’ un processo che ha avuto un drammatico risvolto nella negazione esplicita di Dio, inteso come Padre e Signore ; così si è sviluppato un ateismo programmatico, l’altra faccia di uno sforzo di emancipazione totale. Di conseguenza la “morte di Dio” è sembrata condizione necessaria per la vita e la gloria dell’uomo. Ci si è voluti liberare da un Dio inteso come arbitro dispotico o controparte indifferente o inerte.
E’ emerso presto il prezzo tragico di queste pretese della ragione moderna.
Due interpreti della nostra epoca iniziano un loro saggio con le seguenti parole: “L’Illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura” (MAX HORKHEIMER – TH. W. ADORNO, Dialettica dell’Illuminismo, Torino 1966, p. 11). L’ideologia ha travolto se stessa nel fumo dei forni crematori e nei genocidi del nostro Novecento. La società senza padri, prodotta dalle ambizioni totalitarie della ragione, si è risolta in una folla di solitudini. La cosiddetta “crisi delle ideologie” e il sorgere del “pensiero debole”, che caratterizzano la fine del millennio, nascono dall’esperienza del fallimento delle pretese della ragione adulta.
Che cosa significa ciò in concreto? Che cadono gli orizzonti forti di senso, si diffonde una reazione di rifiuto delle certezze ideologiche, si profila un senso di disagio e di spaesamento. Una condizione di “naufragio con spettatore” (H. BLUMENBERG) sembra caratterizzare il tempo della fine dei blocchi ideologici contrapposti.
L’indifferenza, la mancanza di passione per la verità, l’incapacità a sperare in grande, spinge molti a chiudersi nel corto orizzonte dei propri interessi o degli interessi di gruppo. La frammentazione prende il posto dei sistemi totali.
L’arcipelago subentra alla massificazione forzata delle ideologie. Emerge il “pensiero debole”, timoroso di qualunque verità.
Che ne è della figura del padre in questa condizione post-moderna? Se l’ideologia aveva voluto liberare gli uomini dalla dipendenza dal padre per renderli adulti ed emancipati, il “pensiero debole” che le succede non ricupera la figura dell’Altro cui affidarsi. La fine della “società senza padri” non equivale a un ritorno alla figura del padre: anzi, il relativismo, che si diffonde come conseguenza dell’abbandono delle certezze ideologiche, sembra rendere gli uomini ancora più chiusi in se stessi e più soli.
L’indifferenza ai valori, mascherata spesso sotto l’arrivismo e la frenesia di una esistenza spesa per l’effimero, compie un passo ancora più radicale dell’“uccisione del padre” operata dalla ragione illuminista: il padre non è più figura di un avversario da combattere o di un despota da cui liberarsi, ma è figura priva di ogni interesse o attrattiva.
Ignorare il padre è in fondo più tragico che combatterlo per emanciparsi da lui.
Il relativismo e l’indifferenza si riflettono così anche sull’esperienza di Dio come Padre: il “pensiero debole” non nega Dio, non sente il bisogno di farlo, ma svuota di ogni significato e di ogni attrattiva il trascendente. Al massimo, Dio diventa un “ornamento” (G. VATTIMO), una figura che si concilia con la debolezza etica e con la condizione di continua caduta nel non senso: è un Dio senza forza, specchio di un uomo decadente e rinunciatario. Si convive con Lui come con uno dei tanti feticci dell’esistenza, senza lasciarsi in nulla segnare o trasformare da Lui: è la condizione che la parabola della misericordia del Padre (Lc 15,11-32) esprime attraverso la figura del figlio maggiore, quello restato a casa che, dopo tanti anni di convivenza col padre, è incapace di comprenderne la logica di amore e di perdono. Prigioniero della sua solitudine e schiavo dei suoi interessi (“non mi hai dato mai un capretto!”, Lc 15,29), il figlio maggiore non è meno lontano dal padre del figlio andato via di casa: la vicinanza fisica non è vicinanza del cuore. Si può abitare nella casa del padre e ignorarlo coi fatti. Si può ritornare a parlare di Dio, ma non incontrarLo e non farne alcuna esperienza profonda e vivificante.
Il foglietto
Immagine: Figlio prodigo, Mattia Preti 1658 – palazzo Reale Napoli
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.